Imprint: come cambia il volto dell’editoria
In Italia vengono pubblicati ogni anno moltissimi libri, con una cifra che si aggira (o supera) le 80.000 copie. Il margine di successo, però, è molto risicato. Decine di migliaia di testi non arrivano nemmeno nelle librerie e in generale più del 90% delle pubblicazioni vende meno di 2.000 copie.
Anche i bestseller non sono più quelli di una volta. Il ciclo di vita, promozione e visibilità dei libri si è drasticamente accorciato. I successi maggiori ne sono usciti fortemente ridimensionati: solo il primo anno riescono a vendere decine o centinaia di migliaia di copie. In quest’ottica, i risultati delle pubblicazioni non si misurano più in base ai dati assoluti di vendita, ma su ciò che viene calcolato come costo complessivo di produzione, distribuzione e magazzino in rapporto alle aspettative. Per esempio, un libro che viene stampato in 1.000 copie e venderà esattamente quelle 1.000 copie (o magari di più, portando a una ristampa) è un investimento di successo, perché ha ricavato esattamente o più di quanto è stato speso per la sua diffusione.
L’imprint
In questo contesto, alcuni fenomeni strettamente collegati fra loro hanno preso piede. Nello specifico, la creazione di nuovi marchi editoriali (“imprint”) e l’uso dell’intelligenza artificiale per snellire e accelerare i processi di pubblicazione. Sono due, in particolare, gli imprint che hanno riscosso una certa attenzione (non senza critiche) nel mondo dell’editoria degli ultimi mesi. Il primo è 8080 Books, di Microsoft, che ha già pubblicato la sua prima opera. Il secondo è 8th Note Press, di ByteDance. Quest’ultimo verrà utilizzato soprattutto come strumento di marketing per la distribuzione di romanzi fantasy, romance e altri generi che diventano virali nella sezione “BookTok” di TikTok.
Il termine imprint deriva dal vocabolario dell’editoria anglosassone, dove le collane editoriali non sono così frequenti e il mercato è composto principalmente da grossi gruppi industriali, che hanno acquisito case editrici più piccole nei decenni. In Italia non esiste un vero corrispettivo, anche perché è piuttosto difficile definire esattamente cosa sia un imprint, che spesso serve da contenitore o cappello sulla base delle opportunità editoriali del momento.
Alcuni esempi
Un editore può decidere di aprire un marchio editoriale basato sulla selezione di una serie di libri da parte di una persona celebre (come l’imprint di Oprah Winfrey o di Sarah Jessica Parker). La stessa cosa può succedere anche nel caso di persone non famose, ma che lavorano già all’interno della casa editrice. Se non ci sono posizioni aperte, il lancio di un nuovo marchio editoriale è la soluzione più comoda ed economica.
Ci sono poi i premi letterari, spesso caratterizzati da regole di partecipazione piuttosto rigide. È il caso del Booker Prize, il più rilevante premio letterario per la narrativa di lingua inglese, che consente la candidatura a un massimo di tre libri per imprint. Non è infrequente che ne vengano creati ad hoc, per riuscire a sottoporre alla giuria più titoli.
Infine, come già accennato, nel mondo anglosassone le case editrici medie e minori sono spesso ridotte a imprint. L’operazione, di puro marketing, serve essenzialmente a ridurre i costi e distinguere tra loro prodotti che si rivolgono a diverse tipologie di lettori.
Differenze e gerarchie
Le case editrici in Italia sono diverse migliaia, ognuna con una propria linea editoriale, stabilita al vertice, che determina la nascita eventuale di una o più collane di libri. Le pubblicazioni di questa categoria possono definirsi in base a una disciplina, idea o materia trattata comune. Esistono però anche collane in cui non è il contenuto ad accomunare i singoli volumi. In questo caso l’operazione viene svolta a posteriori e il punto di unione è proprio la veste editoriale.
La differenza più sostanziale fra un imprint e una casa editrice sta nel fatto che al marchio editoriale non corrisponde una società con dipendenti propri. Le persone che lavorano ai libri di un imprint sono, a tutti gli effetti, dipendenti o collaboratori della casa editrice che possiede il marchio. In questo senso, l’imprint è più vicino al concetto di collana editoriale che di casa editrice, ma sarebbe più corretto dire che si trova nel mezzo di queste due cose. Il marchio editoriale ha, in generale, una maggiore indipendenza nella gestione e nella linea editoriale che vengono operate al suo interno.
E in Italia?
Tutti i casi sopra descritti cominciano a essere esplorati anche in Italia. Ad esempio, Rizzoli ha da poco annunciato un nuovo imprint curato da Megi Bulla, una delle più note booktoker italiane. Feltrinelli ha lanciato a luglio scorso Gramma, marchio editoriale dedicato alla riscoperta dei classici e alla narrativa letteraria e saggistica di qualità. Anche Edizioni E/O, famosa per la pubblicazione dei romanzi di Elena Ferrante, ha creato l’imprint Ne/oN, che si occupa della distribuzione di romanzi stranieri legati al fantastico.
L’impressione è che molte case editrici stiano usando l’imprint come copertura per espandersi e diversificare l’offerta. In questo modo evitano di snaturare la propria linea editoriale agli occhi dei lettori e sostengono i nuovi marchi con una reputazione costruita negli anni. È sicuramente una scelta che parla molto di come si sta evolvendo la situazione editoriale. Sarà interessante vedere se, nei prossimi anni, si rivelerà una strategia corretta per il rilancio dell’editoria o l’ennesimo buco nell’acqua.